Una provvidenza singolare

           (riflessione sul sostentamento del clero)

Mons. Carlo Ghidelli interviene all'Assemblea Generale UAC - Assisi 26/11/2013
Mons. Carlo Ghidelli interviene all’Assemblea Generale UAC – Assisi 26/11/2013

di S.E. Mons. Carlo Ghidelli

 

1. Mi riferisco al così detto sostentamento del clero, al quale si dice siano annessi dei valori. Condivido, in gran parte, questa  valutazione perché ne sono profondamente convinto. Ma, con grande rispetto e nella fiducia di trovare ascolto e forse anche qualche reazione, mi permetto di chiedermi: “Quali valori?”.

            Ne elenco alcuni, senza pretesa di completezza. Anzitutto la partecipazione dei fedeli laici alla vita della Chiesa, segno certo di grande sensibilità  nei confronti dei ministri ordinati: vescovi  presbiteri E DIACONI. Sono convinto che anche questo è un modo con  il quale la Chiesa, come comunità di fede, vive e manifesta quel amore fraterno che si traduce spontaneamente in  uno scambio di doni, nel quale ciò che è materiale si armonizza con ciò che è spirituale a beneficio di tutti.  

            Viene poi il valore economico, che non deve essere sottovalutato perché se è vero che non di solo pane vive l’uomo è pur vero che anche i  preti hanno bisogno del pane quotidiano per attendere con  più disponibilità di tempo al loro servizio pastorale.  Ma il valore economico non deve essere sopravalutato perché, quando si tratta di denaro, entra sempre in  gioco una certa quale ambiguità. E poi, un ministro ordinato deve sempre chiedersi: che ne faccio di questi soldi? Da dove vengono e dove dovrebbero andare?

            Personalmente mi chiedo: non sono in  gioco anche valori pedagogici? Dopo alcuni decenni di esperienza forse siamo in  grado, o dovremmo esserlo, di riflettere anche su questi risvolti del problema che, a mio modesto avviso, non sono da relegare tra gli optionals. Ricordo infatti che fin  dall’inizio era questa la preoccupazione del cardinale Anastasio A. Ballestrero, allora presidente della Conferenza  Episcopale Italiana, e la confidava apertis verbis  al vescovo Attilio Nicora che, per conto della CEI, trattava con  la delegazione governativa. In queste poche righe vorrei proporre una riflessione oggettiva e spassionata del problema che affido alla benevola attenzione di tutti.

2. Indubbiamente sono molteplici e segnalati i vantaggi che  sono derivati dal sistema del sostentamento del clero e non sarò certamente io a metterli in dubbio, perchè anch’io ne ho beneficiato fin  dall’inizio e ne sto beneficiando ancora  in  qualità di vescovo emerito. Ma non posso sottrarmi al seguente interrogativo: quale bene ne è venuto a noi preti e vescovi che ne abbiamo beneficiato? Siamo stati in grado di farne un  uso appropriato, in modo conforme alle finalità intese e alla nostra condizione di ministri del Vangelo?

            Forse rimangono tuttora aperti alcuni aspetti problematici, che non dobbiamo disattendere come se dovessero rimanere tali per sempre. Ciò che ci sembra un problema richiede di essere risolto per non caricarci di ulteriori responsabilità. Ne va della nostra onorabilità, ma soprattutto della credibilità del ministero che esercitiamo a favore di quei fedeli che, con la loro scelta a favore dell’ otto per mille e con  le loro offerte deducibili dimostrano, almeno implicitamente. di apprezzare la nostra presenza e il nostro operato in seno alla Chiesa e a favore della società civile, soprattutto dei poveri.

            Il discorso si fa ancora più stringente se consideriamo il fatto che stiamo attraversando un  periodo di grave crisi economica: un tempo che ci interpella personalmente e penso che nessuno di noi possa tacitare le voci di non pochi poveri, soprattutto famiglie, che fanno fatica a sopravvivere. A confronto con  queste situazioni noi preti non stiamo forse conducendo un  tenore di vita troppo agiato, comunque assai diverso da quello di molti nostri fedeli?

3. Ma prima di portare al largo il mio ragionamento ritengo opportuno richiamare alcuni  insegnamenti evangelici relativi al denaro e al suo uso. Come è noto, è soprattutto l’evangelista Luca che ci trasmette questo messaggio, lui che non aveva conosciuto Gesù di Nazaret, ma era stato in  missione con l’apostolo Paolo e, come lui, aveva sperimentato tanti disagi e non poche ristrettezze economiche. Questa sua testimonianza rivela non  solo una sua speciale sensibilità verso i problemi sociali, ma anche il desiderio di trasmettere un  preciso insegnamento di Gesù.

            Se Gesù ha ritenuto opportuno, anzi necessario, qualificare il denaro come “il mammona d’iniquità” (Luca 16, 9; altre traduzioni hanno “la  iniqua ricchezza” oppure “l’ingannevole denaro”), quasi personificandolo come principio di male, “come una potenza alla quale il mondo è asservito”, significa che esso porta con  sé un  grande pericolo, al quale difficilmente ci si può sottrarre.

            Al termine della parabola del ricco stolto si legge: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è  di chi accumula tesori per sé e non arricchisce davanti a Dio”. Ma che cosa significa “arricchire davanti  a Dio?”. La risposta la offre lo stesso evangelista subito dopo: “Vendete ciò che avete e datelo in elemosina: fatevi borse che non invecchiano, un  tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignuola non consuma. Perchè là dove è il vostro tesoro  là sarà anche il vostro cuore” (12, 20. 33-34). Ecco dunque una precisa indicazione circa la destinazione del denaro che ci arriva.

5. Oggi abbiamo anche il luminoso esempio di papa Francesco il quale non cessa con le parole ma soprattutto con il suo esempio di indicarci  la povertà o, quanto meno,  la sobrietà, come la via principale di ogni autentica spiritualità presbiterale. La sobrietà per papa Francesco non è una  semplice scelta lasciata alla libertà dei singoli preti, ma è e deve diventare un metodo stabile, indice di uno  stile di vita che, alla fine, risulta più eloquente di ogni discorso.

            Non possiamo non ringraziare il Signore di aver donato alla nostra Chiesa una persona come il nuovo vescovo di Roma, papa Francesco che, giorno dopo giorno, con estrema semplicità ma con grande forza spirituale, sta scuotendo le nostre coscienze per stabilire quella profonda sintonia evangelica che sola può suscitare una vera e autentica conversione  individuale ed ecclesiale.

6. Anche il concilio Vaticano II. in  un passaggio della costituzione dogmatica sulla Chiesa ci invita a fare nostro lo stile di vita di Gesù, povero e umile: “E come Cristo ha compiuto la sua opera di redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo, “sussistendo nella natura di Dio, spogliò se stesso, prendendo la natura di un  servo” (Fil 2, 6-7) e per noi “da ricco che egli era si fece povero” (2 Cor 8, 9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria della terra, bensì per far conoscere, anche con il suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione. Cristo è stato inviato dal Padre “a  dare la buona novella ai poveri, a guarire quelli che hanno il cuore contrito” (Lc 4, 18), “a cercare e salvare ciò. che era perduto” (Lc 10, 10); così pure la Chiesa circonda di affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi  riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore povero e sofferente, si premura di sollevarne l’indigenza e in loro intende servire a Cristo” (n. 8).

            L’analogia tra Cristo e  la Chiesa non potrebbe essere più esplicita e più stringente: ovviamente noi siamo invitati a riconoscerci come membra di questa Chiesa che, però, nei confronti di Cristo avverte non solo una certa analogia,  ma anche una forte distonia. Si legge infatti nella stessa pagina della Lumen  Gentium: “Ma, mentre Cristo “santo, innocente, immacolato” (Ebr. 7,  26) non conosce il peccato (cf. 2 Cor. 5, 2), ma venne allo scopo di espiare i soli peccati del popolo (cf Ebr. 2, 17), la Chiesa che comprende nel suo seno i peccatori, santa insieme e sempre bisognosa di purificazione, mai tralascia la penitenza e il rinnovamento”.

            E’ a questa Chiesa che noi apparteniamo, consapevoli perciò di essere anche noi, ad un  tempo, santi e peccatori e pertanto esposti alle tentazioni di chi è in cammino verso il Regno. Ed è certo che una delle tentazioni più forti, per tutti e quindi anche per noi preti, è quella che deriva dal denaro.

7. Riprendendo ora gli interrogativi sopra formulati, mi pare di poter proporre alcune risposte, molto semplici e in  parte scontate, che tuttavia possono risvegliare la coscienza di non pochi ministri ordinati che sono seriamente intenzionati a vivere quella spiritualità che è intimamente annessa  al loro ministero. E’ì qui che emerge la dimensione pedagogica della quale parlavamo.

            In primo luogo il discorso verte non sul denaro in  se stesso, ma sull’uso e sulla destinazione che se ne fa. Siamo noi, infatti, che lo possiamo far diventare un  idolo, oppure servircene come di un  mezzo. Tenendo presente, tra l’altro,  il fatto che i fedeli laici si scandalizzano molto se si accorgono che il loro prete è eccessivamente legato ai soldi, dimostrando di non aver fiducia nella divina provvidenza

            L’uso deve essere improntato alla massima sobrietà, senza sprechi e senza indulgere a certi hobbies che inducono a scelte smodate. E’ qui  che possiamo esercitare quello spirito di sacrificio che ci è stato insegnato negli anni della nostra formazione e che, senza alcuna ostentazione, dovrebbe diventare il nostro fiore all’occhiello. Sono forse i  preti giovani che, sotto questo profilo, devono sentirsi interpellati?

            La destinazione, poi, deve essere non solo strettamente personale ma anche comunitaria, attenti alle necessità dei più bisognosi, soprattutto di chi ci vive accanto o vicino.  A un ministro ordinato in cura d’anime, sia vescovo, presbitero o diacono, non mancano  svariate occasioni per sovvenire alle necessità altrui, anche di coloro che non osano manifestare la loro situazione di indigenza.

            Non dobbiamo dimenticare una cosa assai importante, che riguarda anzitutto i vescovi e i preti anziani: il testamento che ognuno di noi deve stilare non potrà non considerare il fatto che tutto ciò che possediamo è frutto del ministero esercitato e perciò deve ritornare alla comunità ecclesiale. Non ci appartiene e tanto meno deve essere destinato a fratelli o nipoti. Un testamento ben fatto indubbiamente è segno di una sensibilità squisita, di chi sta vivendo nell’attesa della beata speranza e dell’avvento del Signore nostro Gesù Cristo.

            Siamo proprio certi che i valori pedagogici annessi al sistema del sostentamento del clero sono stati percepiti e vissuti da coloro che sono direttamente  interessati? Non abbiamo dato forse una eccessiva, e forse una  falsa sicurezza economica alla quale tutti, ma soprattutto  i giovani, non erano stati adeguatamente formati? Certo, tutto dipende dalla coscienza di ciascun ministro ordinato, ma ciò non toglie che rimanga il dovere di tenere desta in tutti quella vigilanza che può immunizzarci da pericoli tutt’altro che astratti o remoti.

8. Queste riflessioni le affido anzitutto ai membri dell’Unione Apostolica del Clero che frequento ormai da anni e quindi posso testimoniare circa la spiritualità da essi coltivata. La dimensione diocesana di tale spiritualità li lega ancor più profondamente al territorio nel quale svolgono il loro servizio e quindi li rende estremamente sensibili alla situazione nella quale  versano non pochi dei loro fedeli .

            Ovviamente queste stesse riflessioni valgono per ogni ministro ordinato che intenda vivere la sua spiritualità diocesana nel segno di quella sobrietà che affonda le sue radici nell’evangelo di nostro Signore e oggi si manifesta in modo del tutto eccezionale nella persona e nell’esempio di papa Francesco.