Pubblichiamo alcuni passi di un ampio studio dell’Autore nel quale la ricca ecclesiologia delle grandi lettere paoline è delineata su tre percorsi principali: domestico, somatologico e pleromatico. Per motivi di spazio ci soffermiamo sui due primi aspetti.
Aspetto domestico
(…) Il primo livello che chiarifica l’ecclesiologia paolina è quello domestico o familiare, poiché nel periodo di formazione del suo epistolario (anni 50-60 d.C.), non esisteva ancora una chiesa unitaria, rappresentata da un edificio ben delimitato e distinto dalla sinagoga o dal tempio di Gerusalemme, che tra l’altro non era stato ancora distrutto (70 d.C.).
La “chiesa di Dio”, operante già prima dell’incontro di Paolo con il Risorto sulla strada di Damasco, e che aveva cercato di distruggere nel periodo della sua appartenenza al giudaismo farisaico (1Cor 15,9; Gal 1,13), permette di cogliere la valenza assembleare del termine: la ekklesia non corrisponde a un edificio, contrapposto alla sinagoga, bensì a un insieme di persone convocato (da kalein = chiamare), nel nome del Signore, per condividere la Scrittura d’Israele, la frazione del pane e della carità con i più indigenti.
Dal versante sociale, le prime comunità familiari erano composte di circa 40 o, al massimo, di 50 persone e si radunavano nella casa più spaziosa utilizzando, nello stesso tempo, il triclinium o la sala da pranzo e l’ atrium o quella d’ingresso. Molti dei credenti in Cristo provenivano dagli strati più umili della società, in quanto schiavi o liberti, anche se non mancavano possidenti e agiati (commercianti e artigiani) che ponevano a disposizione le loro abitazioni più spaziose per le riunioni ecclesiali.
Rari dovevano essere i credenti di estrazione nobile (cf. 1Cor 1,26), riconducibili alla classe senatoriale e a quella equestre dei patrizi.
(…) La formula che caratterizza le comunità domestiche assume anzitutto carattere distributivo: “La chiesa che si raduna nella casa di… In genere, i figli e gli schiavi domestici seguivano gli orientamenti religiosi del pater familias, anche se non mancavano eccezioni per cui erano autorizzati a frequentare i culti che desideravano: il caso del gentile Onesimo, convertito da Paolo in prigione, rispetto al credente Filemone è emblematico.
(…) La situazione familiare e frammentaria delle prime comunità cristiane dimostra, da una parte, come la chiesa non sia una categoria astratta, bensì concreta e sorta per le relazioni interpersonali dei credenti, e dall’altra che gli stessi nuclei familiari ecclesiali rimandano alla “chiesa di Dio”, in quanto attestazione visibile della sua elezione e della sua presenza.
(…) Il tratto dinamico della relazione distributiva e unitiva della chiesa è posto in evidenza dal linguaggio dell’edificazione, mediante la valorizzazione dei diversi carismi e ministeri (1 Cor 14,4.5): gli stessi credenti, in quanto proprietà del Signore, sono definiti “campo” (ibid. 3,9), “edificio/edificazione” (ibid. 14,12), “casa” (ibid. 1,16) e “tempio di Dio” (ibid. 3,16.17).
L’ultima accezione non sostituisce il secondo Tempio di Gerusalemme che, come abbiamo precisato, è ancora in auge negli anni 50 d.C., ma si pone in continuità, sottolineando l’appartenenza di entrambi al Signore, che in essi rivela la sua presenza e la sua santità.
Aspetto somatologico
Originale è il modo con cui Paolo utilizza il linguaggio somatologico o del corpo per descrivere la chiesa in generale e le singole comunità in particolare. Di per sé la metafora del corpo, applicata alle relazioni sociali e civili, è diffusa nella filosofia popolare ellenistica, soprattutto in quella stoica, e nella letteratura greco-romana antica.
(…) Mentre in queste fonti si procede dalla diversità delle membra, per origine, cultura e stato sociale, all’unità del corpo, nell’argomentazione paolina (cf 1Cor 12,4-27, Rm 12,3-8; Ef 4,1-16) si assiste alla dinamica inversa: dall’unità dei singoli a Cristo, per la fede, alla comunione delle membra fra loro: «E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo» (1Cor 12,13).
Soltanto così l’unità diventa garanzia della diversità e questa espressione dell’unità, senza che la prima cada in espressioni di unitarismo e la seconda in fazioni che lacerano il corpo di Cristo.
Di conseguenza, la categoria del “corpo mistico”, applicata nella storia della teologia alla chiesa, andrebbe ridefinita: non si tratta semplicemente di una metafora, bensì di una relazione con Cristo nella chiesa che assume caratteri persino più coinvolgenti di quelli che si verificano nel corpo di ognuno.
Poiché non è vero che se un membro del corpo soffrono tutte le membra, tranne che per gli organi centrali, la condivisione delle membra nel corpo di Cristo, che è la chiesa, è totalizzante poiché la gioia e la sofferenza di un piede hanno ripercussioni sulla mano o sull’occhio (1Cor 12,26).
(…) Diversa e complementare, ma non contraria, è la somatologia che si delinea nelle grandi lettere paoline rispetto a quella successiva di Colossesi e di Efesini: nel primo ambito epistolare il capo non è Cristo, bensì è identificato con uno dei membri (1Cor 12,28-30) della comunità che, in quanto suo corpo, s’identifica con Cristo, nel secondo ambito Cristo stesso è il capo che, in quanto risorto, continua a operare, in relazione inscindibile, con il suo corpo che è la chiesa (cf. Ef 4,15).
Per questo Paolo può asserire che completa nella sua carne quanto manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo che è la chiesa: il referente della sua sofferenza non è il sacrificio di Cristo che, poiché perfetto è anche definitivo, ma il suo corpo ecclesiale.
Tuttavia in questi tratti diversificati, tra la somatologia delle lettere autoriali e quelle della prima tradizione, permane il tratto costante che procede dall’unità di e in Cristo alla comunione vicendevole fra i credenti: l’origine cristologica dell’ecclesiologia vale sia per le lettere autoriali, sia per quelle della tradizione.
In tal senso non è la comunione a generare l’unità, bensì l’unità in Cristo a esprimersi nella comunione, altrimenti non si spiega la negazione di qualsiasi differenza tra giudeo e gentile, maschio e femmine, schiavo e libero al livello dell’unica fede (Gal 3,28; Col 3,11), e la contemporanea affermazione quando si tratta di sottolineare le diversità tra giudei e gentili, schiavi o liberi (1Cor 12,13) nello stesso corpo.
Le differenze non sono negate in assoluto, ma riguardano l’ambito della fede, per essere valorizzate in quello delle relazioni ecclesiali.
(…) Se al livello della fede o battesimale non c’è alcuna differenza sociale, etnica e sessuale fra i credenti, in quello ministeriale le stesse differenze arricchiscono il corpo di Cristo.
(…) L’implicito, ma presente orizzonte trinitario per l’ecclesiologia paolina, è fondamentale per identificare il luogo e il corpo visibile in cui operano le tre Persone divine, prima che nella storia del dogma emergessero il linguaggio della Trinità e le differenze interne tra la natura e le persone divine. L’augurio conclusivo di 2Cor 13,13 sulla grazia del Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo, riversati sui destinatari, conferma le differenze trinitarie accomunate dalla loro signoria (per quella dello Spirito cf. 2Cor 3,17).
Fra i carismi destinati a diventare ministeri sono opportune alcune precisazioni circa gli apostoloi, gli episkopoi e i diakonoi, i ministeri che riceveranno ulteriori sviluppi nelle lettere pastorali, con la triade degli episcopi, dei diaconi e dei presbyteroi (l’ultimo termine non si trova mai nelle lettere autentiche).
Nelle lettere autoriali gli apostoli non s’identificano con i Dodici, ma con coloro che, a prescindere dalla condizione sessuale o civile, sono inviati per diffondere il vangelo di Cristo. Di fatto anche Giunia e Andronico, sono definiti “apostoli”, che sono in Cristo prima di Paolo stesso (Rm 16,7). Pertanto mentre anche i Dodici (1Cor 15,5) sono apostoli, non tutti gli apostoli rientrano nel gruppo ristretto dei Dodici che hanno condiviso la vita pubblica di Gesù.
Antonio Pitta
Professore ordinario di Nuovo Testamento
Pontificia Università Lateranense